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La cucina del quinto quarto: il top della tradizione romana

In matematica una cosa divisa in quattro non può fornire un quinto. Nella cucina romana, invece, questo avviene. Ecco a voi la cucina del quinto quarto, orgoglio della tradizione capitolina.

Come noto, la tecnica della macellazione prevede la divisione dell’animale in quattro parti fondamentali. Quarti anteriori e posteriori da cui ricavare i diversi tagli di carne. D’altra parte, la parola squartare indica proprio l’azione di dividere in quattro parti. Tutte le parti meno nobili venivano considerate materia di scarto. Per esempio, l’intestino, il pancreas e il timo (le cosiddette animelle), la testa e la coda. Come anche scarti erano le zampe, lo stomaco, l’esofago, polmoni e il cuore. Tuttavia, in una popolazione crescente e a maggioranza povera, era impensabile, infatti, perdere un tale tesoro. Ed ecco, quindi, che nacquero numerose ricette atte a ricavare piatti commestibili proprio da quelle parti di scarto. Dando luce, involontariamente, a piatti ancor più gustosi di quelli ottenuti dai tagli pregiati. Oggi le ricette del quinto quarto si trovano in pochi e tradizionalissimi ristoranti.

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Il Ghetto ebraico di Roma è ricco di ristoranti tipici. Courtesy: La Taverna del Ghetto

Quartiere che vai quinto quarto che trovi

Gli abitanti di Roma, come noto, sono affetti da una notevole quantità di campanilismo. Qualche secolo fa questa caratteristica era ancora più evidente. La lotta leggendaria, della gioventù romana, quartiere contro quartiere, a suon di sberle, duelli e sassaiole, ma anche sberleffi e rime è nota. Era il modo in cui si rivendicava la propria identità. E questo accadeva anche rimarcando le differenze culturali fra i diversi gruppi, incluse le abitudini culinarie. Così per i trasteverini gli abitanti del Rione Regola erano i magnacoda. Per i monticiani i trasteverini erano i magnaventricelli. Come se il cibo nel piatto fosse contemporaneamente, inclusione ed esclusione di una identità. Oggi, ricercare quelle piccole differenze significa, in sostanza, raggiungere il cuore della tradizione.

Le principali ricette del quinto quarto a Roma

Dalla necessità di non sprecare nulla, dunque, nascono ricette  squisitamente romane. Come la pajata, che utilizza, addirittura, una parte dell’intestino dell’animale. Che solo con la sapienza della tradizione, diventa da scarto, piatto da re. La pajata è l’essenza della cucina del quinto quarto. In grado di ammaliare con il suo gusto, tanto quanto scioccare o far storcere la bocca allo straniero che ne scopre gli ingredienti base. Celebrata sul grande schermo dalla famosa scena del Marchese del Grillo, conta migliaia di estimatori. I delatori, se non vegetariani, semplicemente non l’hanno mai assaggiata. Per gustarla è necessario semplicemente superare la resistenza psicologica derivante dal fatto che si tratti di interiora. Vietato non provarla.

rigatoni con la pajata: il top della cucina tradizionale romana

I Rigatoni co la pajata: il top della cucina romana del quinto quarto

La trippa alla romana

Questo è veramente un monumento al cibo di strada tradizionale. Lo street food è stato inventato a Roma (si, ovviamente, anche a Napoli). Tradizionalmente la trippa si vendeva in strada dai cosiddetti Tripparoli. I venditori ambulanti che giravano le strade urlando, solitamente nel giorno del sabato. Come recita il classico detto: giovedì gnocchi, sabato trippa. Si trova ancora in alcuni rari e tradizionalissimi ristoranti in due versioni: in bianco con sugo di carne o con sugo di pomodoro. Per cuocerla a dovere occorrono cinque o sei ore, ecco che questa ricetta, è oggi tutt’altro che un piatto povero. Si serve tradizionalmente con il Pecorino romano grattugiato o con Parmigiano reggiano. Offerto nei ristoranti super tradizionali, che, di certo vantano uno chef romano nella cucina. Per l’abbinamento con il vino, vini rosati o rossi di media struttura: Rossese di Dolceaqua , Lambrusco.

Le animelle e i cervelletti

Come precedentemente detto, le animelle sono, principalmente, degli ingredienti. E questi ingredienti sono delle ghiandole, come il timo e il pancreas. Solitamente di agnello, oppure di vitello. Vengono pulite, leggermente marinate in acqua e aceto, infarinate e fritte. Fritti sono anche i cervelletti, solitamente d’abbacchio e pastellati. Si tratta di ricette che si gustano prettamente nel quartiere ebraico di Roma. Coma anche nei tradizionalissimi ristoranti a conduzione familiare della Capitale.
Un vino da abbinare a queste ricette è un Rosato di Puglia, Moscato di Terracina, Zagarolo DOC

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Franca prepara la coratella fresca nel ristorante di famiglia La Taverna del Ghetto a Portico d’Ottavia

La coratella: orgoglio del quinto quarto

coratella con i carciofi - quinto quarto

La coratella con i carciofi

Si tratta essenzialmente di uno stufato di interiora, composto da cuore, fegato, polmoni, esofago milza e animelle. Sembra che il nome coratella derivi dal fatto che si utilizzino le interiora degli ovini anziché dei bovini (corata).  La tradizione romana la vuole servita con i carciofi. Oltre che pulita sapientemente, va cotta inserendo gli ingredienti in una progressione precisa. Richiedendo dei tempi di cottura diversi. Solitamente si sfuma con il vino marsala, oppure con succo di limone. Il vino da abbinare a questa ricca ricetta è, secondo noi un rosso fermo di buon corpo, con un retrogusto balsamico, poco tannico e persistente. Come un Cesanese, Teroldego Rotaliano, un Cerasuolo d’Abruzzo. Oppure Aglianico molto invecchiato o un Supertuscan.

La coda alla vaccinara

Quando si parla di coda alla vaccinara, invece, bisogna far riferimento a due rioni romani. Come detto prima, il rione Regola e il Rione Testaccio. Inizialmente, infatti, ci si riforniva dal Mattatoio Flaminio, vicino al Rione Regola. Alla fine del 1800, dopo la chiusura del macello, l’attività si trasferì a Testaccio. Un quartiere che nasceva intorno al famoso Monte dei cocci, come noto, una collina fatta di orci di terracotta accatastati nel corso dei secoli. La collina di Testaccio era abbastanza cava al suo interno. Dentro quegli anfratti si conservavano bene gran parte di alimenti e derrate, soprattutto vino. Così a Testaccio aprirono progressivamente numerose taverne, alcune delle quali si rifornivano del quinto quarto direttamente dal vicino macello.

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La coda alla vaccinara è uno dei piatti del quinto quarto più amati a Roma

La ricetta della coda alla vaccinara

  • 2 kg di coda di bue
  • 2 spicchi d’aglio
  • 1 cipolla
  • Olio extravergine d’oliva
  • Due bicchieri di vino bianco
  • 1 kg di pomodori pelati
  • Sale q.b
  • Sedano 1 gambo
  • Pinoli, una manciata
  • Uva passa una manciata
  • Cacao amaro q.b.

A Roma la coda fatta a pezzi è facilmente reperibile nelle macellerie tradizionali. Si inizia dal soffritto realizzato in un tegame di coccio con olio Extravergine di oliva (o lardo secondo la ricetta tradizionale). Prima si soffrigge la coda, poi si aggiunge la cipolla tritata, die spicchi d’aglio e il chiodo di garofano. Una volta rosolato il tutto, si sfuma con il vino bianco. Successivamente si aggiungono i pomodori pelati (almeno 1 kg). La cottura è lentissima e prolungata con acqua calda fino a quando la carne si stacca da sola dall’osso. Una decina di minuti prima del servizio si aggiunge il sedano con i pinoli e l’uva passa. Alcuni aggiungono anche della polvere di cacao amaro a termine. Cacao sulla carne? Sembra strano ma a Roma non lo è.

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Il sangiovese si abbina bene a molte ricette del quinto quarto, specialmente se morbido

Coda alla vaccinara e vino

Prendete un bel pezzo di pane casareccio e fate la scarpetta con il sugo della coda. E’ la morte sua! La ricetta si sposa con spumanti metodo classico molto persistenti demi sec. Al contrario, se si vuole abbinare il bianco dovrà essere complesso e strutturato di gran corpo. Vini rossi di media struttura sono l’abbinamento migliore per questa ricetta: Sangiovese, Cesanese, Carmignano.

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